Meslah non era un ragazzo problematico, assicura chi lo conosceva. Nessun segno apparente di depressione, nessun vizio degno di nota. Non beveva, come l’islam impone. Tantomeno faceva uso di droghe. Ne sono certe le persone che l’hanno conosciuto a Roma. Con lui hanno vissuto anche momenti drammatici, come lo sgombero del Baobab del 30 settembre, quando 109 migranti sono stati allontanati dalla polizia, che ha smantellato armadi, suppellettili, bagni chimici. Tabula rasa.
Pochi mesi dopo un altro respingimento. Questa volta in Belgio, dove era arrivato da solo per cercare la sorella. Con lei però non ha mai vissuto: è rimasto in un centro di accoglienza per pochi giorni. Poi la polizia belga ha scoperto che le sue impronte digitali erano state già registrate in Italia, e così, in base al Trattato europeo di Dublino, l’hanno rispedito indietro. “È lì che devi chiedere asilo, non da noi”.
La sua morte, per i volontari che l’hanno conosciuto, è stata inaspettata come un pugno nello stomaco. «Lo abbiamo sentito al telefono appena due giorni prima della tragedia», racconta Miryam, incredula. «Si lamentava, vi ha fatto capire che soffriva?», chiediamo, e la risposta è un sorriso triste dall’altro capo del telefono. «Lui non si lamentava mai, diceva solo che il tempo, in questo centro di Pomezia, scorreva sempre uguale, lento…».
Appena 48 dopo si è arrampicato su un albero, si è legato una corda intorno alla testa e si è lasciato cadere. Il suo corpo esanime l’ha trovato un passante all’alba. Carabinieri e ambulanze sul posto, poi il passaggio obbligato al policlinico di Tor Vergata, per l’autopsia. «Baobab perde un amico», ci dice Andrea Costa, il volontario che ha preso contatti con il Cas per fare in modo che la salma di Meslah torni dalla famiglia, in Somalia. Da dove tutto è partito.