Il 13 luglio 2010, all’interno del palazzo di giustizia di Velletri, Graziella Di Costanzo colpì al ventre, con un cacciavite, il detenuto Giovanni Loglisci. Un gesto compiuto urlando: “Lo uccido, lo uccido”. La donna fece poi resistenza al personale della polizia penitenziaria intervenuto, provocando anche delle lesioni a un agente. Di Costanzo venne così arrestata con l’accusa di tentato omicidio e restò tre giorni in carcere e undici mesi e cinque giorni ai domiciliari. Il 29 marzo 2011, al termine del processo, venne condannata dallo stesso Tribunale di Velletri a quattro anni e mezzo di reclusione, ma in appello l’accusa di tentato omicidio venne poi derubricata in quella di lesioni e l’imputata se la cavò con sei mesi di reclusione, pena sospesa. A quel punto Di Costanzo ha fatto ricorso per ottenere la riparazione dell’ingiusta detenzione subita e si è vista riconoscere, sempre dalla Corte d’Appello di Roma, cento euro per ogni giorno dei 160 in più rispetto alla condanna subita passati ai domiciliari. Un totale di 16mila euro. Il Mef ha impugnato quella sentenza, specificando che per tali risarcimenti va accertata l’assenza di dolo o colpa grave dell’imputato nell’arresto subito. Insomma va appurato che la presunta vittima l’arresto non sia andato “a cercarselo”. E battendo su tale tasto la Cassazione ha annullato la sentenza, disponendo un nuovo giudizio in Corte d’Appello. “Non vi è alcun dubbio – hanno affermato gli ermellini – che anche nell’ipotesi della riqualificazione migliorativa delle contestazioni in origine elevate e della inflizione definitiva di pena di durata inferiore alla custodia presofferta, debba accertarsi se il richiedente abbia o meno dato causa, ovvero se abbia o meno concorso a dare causa, con dolo o colpa grave alla custodia cautelare subita”.
Detenuta più della condanna, ma...
Coltellate nel tribunale di Velletri, cancellato il risarcimento all’imputata
Impugnando un cacciavite ha colpito, all’interno del Tribunale di Velletri, un detenuto e si è scagliata contro la polizia penitenziaria che cercava di fermarla. Alla fine se l’è cavata con una condanna a sei mesi di reclusione, beneficiando della sospensione condizionale della pena, ed ha ottenuto anche un risarcimento di 16mila euro per essere stata privata della libertà per un tempo superiore alla pena che poi le è stata inflitta. Quanto accaduto con un’imputata deve essere apparso un po’ troppo al Ministero dell’economia e finanza, che ha fatto ricorso e ottenuto ora dalla Corte di Cassazione l’annullamento della sentenza con cui veniva riconosciuto alla donna l’indennizzo per l’ingiusta detenzione subita. Su tale aspetto, alla luce dei principi indicati dalla Suprema Corte, dovrà tornare a pronunciarsi la Corte d’Appello di Roma.
30/05/2017
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