«Le ricerche su Riina per 23 anni non si sono mai interrotte, checché se ne dica – racconta a Il Caffè – Noi dell’Operativo non abbiamo mai smesso di cercarlo». Ma in quei giorni non c’era solo il capo di Cosa nostra al centro delle indagini del brigadiere Giustini, che comandava una squadra concentrata sul braccio “militare” della mafia siciliana: in particolare omicidi ed estorsione. «A un certo punto la ricerca di Riina era l’attività preminente di tutti i reparti del territorio – ricorda – monitoravamo i personaggi che gli gravitavano intorno, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia ci dicevano di chi si contornava e di chi si fidava». Fino alla svolta nel gennaio del 1993.
Cosa ricorda di quella sera?
«Quella sera stavo tornando dal Nord Italia, dove ero stato per interrogare un collaboratore di giustizia. Mi venne a prendere all’aeroporto un collega che mi riportò in caserma. Ricordo che vidi tutte le luci del Nucleo operativo accese nonostante fosse passata la mezzanotte. Allora sono entrato e ho trovato il comandante, che mi ha dato la notizia: “Senti Giustì – mi ha detto – ci sono delle novità. Si è pentito Balduccio Di Maggio”».
Baldassarre Di Maggio, un mafioso molto vicino a Riina, fu arrestato a Novara dai carabinieri ai quali disse subito di voler collaborare. Era scappato dalla Sicilia per salvarsi la vita e quella notte, racconta Walter Giustini, ha fatto il nome di quello che sosteneva essere l’autista del boss. Solo che sbagliò il cognome.
«Disse “Salvatore Biondolillo” – spiega Giustini – Ma io ero certo che fosse Salvatore Biondino, un uomo su cui stavo indagando e che sospettavo da tempo essere al servizio di Riina. Così – continua – sono andato da Di Maggio con una foto. Gli ho detto: “Senti, tu lo conosci bene questo autista?”. Lui rispose: “Sì comandà, Salvatore Biondolillo”. A quel punto gli mostrai la foto di Biondino e lui esclamò: “Iddu è! Iddu!”. Così richiamammo il capitano Ultimo e da lì partirono gli appostamenti che portarono alla cattura di Riina. Li facemmo fare a loro, che venivano da Milano, perché noi ci avrebbero riconosciuti. Ci chiamarono intorno alle 8.30 e ci dissero “L’abbiamo preso”».
Lei lo vide Riina?
«Sì, lo vidi quando lo portarono in caserma. Ricordo che era intimorito. Era silenzioso, non ha mai risposto a nessuna domanda. Diceva solo buongiorno, posso avere un bicchiere d’acqua, ma nient’altro. Sembrava che non si aspettasse la cattura. Poi, dopo un paio d’ore, si è ripreso. Gli è tornato quel solito sguardo truce, con quegli occhi che sembrava volessero ucciderti. Però è stato sempre tranquillo. Poi venne portato via in elicottero».
Cosa ha significato per lei, come carabiniere, l’arresto di questo personaggio?
«Per me è stata un’emozione fortissima. Negli anni precedenti alla sua cattura ci siamo trovati ad affrontare tre guerre di mafia, abbiamo raccolto da terra centinaia di cadaveri. Si ammazzavano come cani, volevano dimostrare che loro, gente di provincia, erano più forti dei palermitani. E lo facevano ammazzando. Fu un periodo intensissimo per noi tra interrogatori, indagini, perquisizioni, appostamenti».
Come sono cambiati in quegli anni i cittadini di Palermo?
«Quando arrivai nel gennaio del 1989, in piena guerra di mafia, Palermo viveva nel terrore. Di sera non c’era nessuno per strada, erano pochissimi i locali aperti e poche le macchine che giravano. Era un periodo in cui sparavano a ogni angolo. Mi sono accorto che con gli anni, dopo le importanti operazioni di polizia e carabinieri, la gente ha iniziato a riprendere un po’ di fiducia. Ricordo che per scherzare mi lamentavo con i colleghi che ormai c’era fin troppo traffico (ride, ndr)».
E dopo l’arresto del boss cosa fece?
«Da Palermo sono stato trasferito per motivi di sicurezza, perché avevo ricevuto minacce da parte di Cosa nostra per degli arresti importanti di cui ero stato protagonista. Mi mandarono a Como».
Lei ha lavorato a stretto contatto con gli ambienti mafiosi ed è stato per anni comandante dei carabinieri di Tor San Lorenzo. Cosa può dirci di Ardea?
«La risposta alla sua domanda è la data del 3 ottobre 2013: il giorno dell’esplosione della mia macchina. Ero già in congedo dall’Arma ma da tempo denunciavo alcune cose che non andavano: in quel periodo parlavo di infiltrazioni della camorra ad Ardea».
di Martina Zanchi