Mancano due ore all’arrivo di Roberto Berardi al Terminal T3 dell’aeroporto di Fiumicino quando la madre, 84 anni, sta scegliendo il vestito più bello che ha. Prima di mettersi in macchina si fa il segno della croce, sperando che l’inferno durato due anni e cinque mesi sia davvero finito. Noi di Il Caffè siamo nella macchina dietro a quella della signora Silviana, della compagna di Roberto, Chantal, e del loro figlio Claudio, di appena 10 anni. Per lui il tempo in cui il papà è stato assente è ancora più grande di quanto lo è per gli adulti. A bordo della nostra auto c’è anche Patrizia, una ex dipendente di Roberto, scappata da Bata, in Guinea Equatoriale proprio quando è venuto a galla l’ammanco di un milione e quattrocento mila euro dal conto della società di costruzioni Elobba. Qualche giorno dopo che ha fatto rientro in Italia, Roberto è stato incarcerato per il reato di cui è stato vittima: appropriazione indebita. Quando arriviamo a Fiumicino ci sono tutti i familiari dell’imprenditore pontino: l’ex moglie Rossella, i due figli Marco e Giulia, 16 e 21 anni, l’ex suocera ed il cugino. C’è anche il senatore Luigi Manconi. Solo loro possono oltrepassare le soglie che a noi sono vietate ed abbracciare per primi Roberto. L’incontro con i familiari dura circa un’ora, poi Roberto viene interrogato dal magistrato e, scortato dai poliziotti, conosce quel pubblico che gli è stato vicino durante il regime di detenzione in Africa, ma che non ha ancora conosciuto. La prima cosa che dice è «Grazie. Se sono vivo è anche grazie all’attenzione che voi avete dato al mio caso. Appena sarò più lucido vi ringrazierò uno ad uno». Poi, con tutti i microfoni puntati addosso sorride e risponde alle domande dei giornalisti. Noi di Il Caffè non l’avevamo mai visto dal vivo, ma in questi due anni e quattro mesi in cui abbiamo denunciato le torture di cui è stato vittima ci sembra di conoscerlo da sempre. Li notiamo subito quei 40 chili persi. Per questo ci abbraccia e ci ringrazia di cuore. «Da dove ricomincerai, ora?» gli chiede qualcuno. «Sicuramente da un piatto di maccheroni. Ne ho davvero bisogno visto quanto sono dimagrito. Poi riorganizzerò la mia vita e lotterò per tutti coloro che devono ancora scontare quello che ho passato io. Io sono vittima di un processo farsa e come me ci sono altri italiani incarcerati in Africa, il cui capo d’accusa è stato costruito a tavolino». E poi, Roberto, spiega a tutti dove ha trovato la forza di resistere. «Ho passato 921 giorni rinchiuso in una cella di 12 metri quadri, torturato, costretto a stare a luce spenta, in isolamento, senza medicine per curare la malaria né una luce alla quale aggrapparmi. Ma ho resistito pensando alle persone che sono qui ad aspettarmi, ai miei figli ed all’amore e alla forza di mia madre: una donna fortissima di 84 anni. Ho tratto energia da questo». Prima di lasciarlo tornare a Latina a godersi un po’ di libertà, una domanda sorge spontanea: «Tornerai in Africa?». E lui: «Certo. È il paese che amo».
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