Rocco G., arrestato nel settembre 2004 con l’accusa di associazione mafiosa nell’ambito di un’inchiesta contro la ‘ndrangheta di Guardavalle, era stato assolto nel 2011 “per non aver commesso il fatto”.
Nonostante ciò, la Suprema Corte ha ritenuto che la sua condotta ostativa escludesse il diritto all’indennizzo previsto dall’articolo 314 del codice di procedura penale.
I fatti: l’arresto e l’assoluzione
Rocco G. fu sottoposto a custodia cautelare in carcere per circa tre mesi tra il 2004 e il 2005, sulla base dell’ipotesi accusatoria che lo vedeva partecipe del clan mafioso capeggiato dal padre.
L’imputazione scaturì da una vasta inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro e Roma, che indagava su un’organizzazione criminale radicata nel catanzarese e dedita al controllo di attività economiche e alla commissione di reati gravi. Dopo anni di processo, Rocco G. venne assolto in via definitiva.
La richiesta di risarcimento e il rigetto
Nonostante l’assoluzione, la Corte d’Appello di Roma respinse la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione. Alla base del rigetto, la valutazione secondo cui Rpcco G. avrebbe contribuito in modo determinante alla sua incarcerazione con comportamenti connotati da colpa grave.
In particolare, i giudici hanno valorizzato una serie di contatti con soggetti di primo piano dell’associazione mafiosa.
Le intercettazioni ambientali raccolte nel corso delle indagini hanno rivelato che Rocco G. non solo avrebbe cercato di retrodatare alcune fatture per giustificare la propria presenza a una cena in cui fu arrestato il padre, ma avrebbe anche svolto il ruolo di tramite tra il genitore latitante e soggetti terzi.
In una conversazione del 2003, viene considerato portavoce del padre dagli stessi affiliati.
La difesa: “Intercettazioni innocue”
La difesa ha sostenuto l’inconsistenza degli elementi valorizzati dalla Corte d’Appello, ritenendo le intercettazioni non sufficienti a dimostrare un comportamento doloso o gravemente colposo.
Secondo l’avvocato difensore, la sentenza avrebbe fatto riferimento a materiali non probatori e avrebbe eluso il principio costituzionale del diritto alla riparazione per errori giudiziari.
La Cassazione: “Condotta ambigua e contiguità al sodalizio mafioso”
La Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello, ritenendo infondato il ricorso. I giudici della Quarta Sezione Penale hanno sottolineato che anche in assenza di condanna definitiva, la frequentazione con soggetti coinvolti in traffici illeciti e il ruolo di intermediazione tra affiliati costituiscono elementi sufficienti a integrare la colpa grave ostativa al diritto all’indennizzo.
“È legittimo – scrivono i giudici – ritenere che la condotta dell’istante abbia generato la falsa apparenza della sua partecipazione a un illecito penale, dando luogo alla misura cautelare poi rivelatasi ingiustificata.”