È questo il nodo centrale della vicenda giudiziaria che ha visto protagonista un uomo di Nettuno di 46 anni, arrestato per detenzione di quasi 2 chili di hashish e una piccola quantità di cocaina.
Il difensore del 46enne di Nettuno aveva fatto ricorso sostenendo l’inutilizzabilità della conversazione come prova. Si era appellato per questo all’articolo 103 del codice di procedura penale, che tutela la riservatezza dei colloqui tra indagato e avvocato.
Il suo ricorso in Cassazione è però stato respinto. La sesta sezione penale ha confermato la custodia cautelare in carcere.
La Suprema Corte ha infatti sancito che la conversazione tra l’indagato e il suo avvocato, captata senza strumenti tecnici né violazioni di legge, è utilizzabile.
La vicenda
L’uomo era stato arrestato assieme a una donna, nella cui abitazione — dove l’uomo aveva accesso ma non risultava residente — la polizia aveva rinvenuto un quantitativo di droga. Si trattava di quasi due chili di hashish suddivisi in venti panetti e una modica quantità di cocaina.
La donna aveva rivendicato subito la proprietà della droga. Per gli inquirenti però il coinvolgimento anche del 46enne era evidente, anche in virtù della convivenza e del possesso delle chiavi dell’appartamento.
A pesare sul giudizio è stato anche un elemento inatteso: una telefonata che il 46enne di Nettuno ha effettuato, alla presenza della polizia, al proprio avvocato.
La telefonata che è costata cara al 46enne di Nettuno
Durante il colloquio, l’indagato avrebbe riferito all’avvocato — senza accorgersi che gli agenti stavano ascoltando — che erano stati trovati “due chili di hashish” a casa della compagna. Il punto è che la droga era ancora da pesare. Come faceva a sapere che erano proprio due chili, se era estraneo alla faccenda?
La polizia giudiziaria ha riportato la conversazione in un’annotazione di servizio e l’ha inserita nel fascicolo. È diventata una prova del coinvolgimento dell’uomo nella detenzione della droga.
Quando non si applica la tutela della riservatezza tra cliente e avvocato
Il difensore dell’uomo ha impugnato l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Roma, sostenendo l’inutilizzabilità della conversazione alla luce dell’articolo 103 del codice di procedura penale, che tutela la riservatezza dei colloqui tra indagato e avvocato.
Ma la Corte di Cassazione è stata netta: non si trattò di intercettazione, ma di un ascolto casuale.
Nessuno strumento tecnico fu utilizzato, né vi fu una captazione occulta. L’ascolto avvenne alla presenza degli agenti, senza che l’indagato cercasse di rendere riservato il colloquio.
E, soprattutto, non vi fu alcuna attività di stimolo da parte della polizia, che si è limitata a registrare quanto udito.
“Nel caso di specie — scrive la Suprema Corte — si è trattato di una conversazione ascoltata casualmente dalla polizia giudiziaria il cui contenuto è stato documentato; un ascolto […] non derivante da una indebita violazione della riservatezza, quanto piuttosto dal comportamento degli interlocutori”.
La Corte ha inoltre sottolineato che, anche espungendo quella conversazione, gli indizi a carico del 46enne di Nettuno resterebbero comunque gravi e numerosi, rendendo inutile il ricorso sotto il profilo della cosiddetta “prova di resistenza”.
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