Un intreccio di certificati falsi, intercettazioni e vicende giudiziarie che è arrivata fino in Cassazione, dove ha trovato la parola fine. I giudici di Cassazione infatti hanno respinto il ricorso straordinario presentato dalla donna di Terracina, già condannata in primo e secondo grado per il ruolo avuto nel traffico di falsi certificati psichiatrici.
Secondo quanto accertato nei precedenti gradi di giudizio, nel traffico di falsi certificati la donna di Terracina avrebbe avuto la funzione di intermediaria, poiché metteva in contatto i potenziali “clienti” con il medico psichiatra compiacente che operava in una struttura pubblica in provincia di Latina.
Certificati psichiatrici, falsi, per ottenere indebiti benefici in una struttura pubblica in provincia di Latina
I clienti avevano bisogno dei certificati psichiatrici, falsi, per giustificare assenze prolungate dal lavoro o per ottenere benefici legati alla condizione psichiatrica.
Il rilascio del certificato medico psichiatrico, che attesta le condizioni mentali e le relative disabilità, può infatti servire per la richiesta di invalidità civile, per la legge 104 o la legge 68 (capacità lavorative).
Per ottenere benefici che derivano da una condizione psichiatrica, come il riconoscimento di invalidità, o l’accesso alla Legge 104, è necessario però che la certificazione psichiatrica sia emessa o convalidata da una struttura pubblica.
Ecco dunque che la donna di Terracina provvedeva a mettere in contatto i richiedenti con il medico psichiatra, che operava all’interno di una struttura sanitaria pubblica dell’ASL Latina e che dietro compenso era disposto a rilasciare certificati psichiatrici falsi.
In un caso, un certificato sarebbe stato rilasciato in cambio di cento euro, senza che il paziente venisse mai visitato.
Condanna in primo e secondo grado per la donna di Terracina intermediaria nel traffico di falsi certificati
Tutta la vicenda di compravendita dei falsi certificati era cominciata nel 2018 e giunta fino al 2025.
Quando il traffico era venuto alla luce, la donna era già stata condannata in primo e secondo grado per il ruolo avuto come intermediaria. La pena in appello era stata ridotta dopo l’assoluzione da uno dei reati contestati.
La difesa però non si è arresa ed è voluta ricorrere fino in Cassazione. Dopo un primo rigetto ha presentato un ulteriore ricorso straordinario.
Il ricorso straordinario in Cassazione è un rimedio eccezionale previsto dall’art. 625-bis del codice di procedura penale, che permette di impugnare una sentenza della Cassazione solo per errori materiali o di fatto, non per errori di giudizio.
Il ricorso in Cassazione
L’obiettivo del ricorso straordinario in Cassazione era quello di ottenere l’annullamento della sentenza. La difesa sosteneva di non aver potuto discutere pubblicamente il caso davanti alla Corte. Sosteneva inoltre che la Cassazione, nel precedente verdetto, era incorsa in errori di fatto.
Secondo l’avvocato, un avviso di udienza formulato in modo ambiguo avrebbe tratto in inganno la difesa, facendole credere che la trattazione fosse già prevista in forma pubblica.
Una circostanza che, a detta della ricorrente, avrebbe violato il diritto a un contraddittorio pieno. Inoltre, il legale sosteneva che la Corte avesse erroneamente ritenuto “inammissibili” alcuni motivi di ricorso relativi all’acquisizione dei certificati e all’utilizzabilità delle intercettazioni.
Ma la Suprema Corte ha respinto punto per punto le doglianze. I giudici hanno spiegato che l’avviso non comportava automaticamente la possibilità di discutere oralmente la causa. Questo doveva invece essere richiesto formalmente nei termini di legge.
I certificati falsi: un “falso in atto pubblico”
Quanto agli “errori di fatto” lamentati, la Cassazione ha ribadito che le prove raccolte – in particolare le conversazioni intercettate – erano più che sufficienti a dimostrare la falsità delle certificazioni, redatte dal medico in modo fittizio. Tali certificazioni erano spesso emesse senza neppure incontrare i pazienti.
Non ha trovato accoglimento nemmeno la richiesta di riqualificare il reato come “falsità in certificato” anziché “falso in atto pubblico”. Questa distinzione infatti avrebbe reso inutilizzabili le intercettazioni.
La Corte ha ricordato che il medico operava a pieno titolo come pubblico ufficiale all’interno di una struttura sanitaria dell’ASL Latina, e che i certificati da lui firmati avevano valore legale pieno, sebbene falsi nel contenuto.
La vicenda si è chiusa con il rigetto definitivo del ricorso e la condanna alle spese processuali.
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