Tutti ci andavano, a farsi una doccia puzzolente, si scottavano pure. Le caratteristiche salsobromoiodiche dell’acqua erano utili per la cura delle malattie della pelle, eczema, psoriasi, reumatologiche. Ma il getto era così potente che i tecnici non riuscirono a incanalarlo tanto che il pozzo fu abbandonato, anche se il getto rimase aperto e inutilizzato per anni. «Si costituì nel ‘53 una società termale – continua Coletta – e sotto la direzione del commendator Cimaglia si iniziò la costruzione delle cabine termali complete di tavole per fangatura e vasche tuttora esistenti, per la sperimentazione delle future terme. Il guardiano della struttura era Mario Campanari, un mio amico carissimo. La sede operativa era la costruzione bassa ex colonia marina anteguerra (ora Hotel Fogliano).
Tra il getto del pozzo e le cabine furono installati una dozzina di serbatoi per il recupero dell’acqua che ricadeva e che, decantando, rilasciava sul fondo delle vasche i fanghi che si utilizzavano per le fangoterapie. L’eccedenza dell’acqua delle cisterne veniva incanalata in tubazioni di plastica da 8 centimetri, prodotte dallo stabilimento Pozzi di via San Carlo da Sezze a Latina, che alimentavano le singole vasche nelle cabine». Le tubazioni si ostruivano molto rapidamente a causa dell’enorme quantità di calcio presente nell’acqua, rendendo necessario il continuo rifacimento dell’impianto di alimentazione delle vasche terapeutiche da parte l’artigiano Enrico Pitton, di cui all’epoca Coletta era dipendente.
«Le terme di Fogliano funzionarono – conclude Luigi Coletta – e furono aperte al pubblico pagante per due anni con ottimi risultati. La morte improvvisa del commendatore Cimaglia bloccò quest’iniziativa sperimentale e la vicenda finì”. Quello che ora rimane delle terme sono le cabine termali nascoste da un fitto canneto e un pozzo sigillato e recintato da una rete metallica la cui parte emersa è sparita. E una società che costa un sacco di soldi al Comune e non ha mai prodotto nulla.