La “terra dei fuochi pontina” era solo agli inizi della sua famigerata storia, sordida e ricca di segreti, che a don Cesare non era dato sapere. E, ancora oggi, nessuno sa.
Una miniera d’oro con cui la criminalità organizzata comprò il silenzio di troppi: da quello dei residenti del borgo, impiegati nella discarica, e quindi facilmente ricattabili, a quello del mondo politico, per giungere forse fino a quello ecclesiale, da sempre restio a sbilanciarsi sulla vicenda.
E così don Cesare, che aveva visto certe cose, fatto certe telefonate, la mattina del trenta marzo viene ritrovato nella canonica, legato mani e piedi, corpo tumefatto, col nastro isolante sulla bocca, soffocato dalla sua stessa dentiera.
Nessuna pietà per il sacerdote 81enne, malato di tumore al polmone. Evidentemente, la vera forza non sta nella violenza. Perché a spaventare di don Cesare non era certo il fragile corpo, ma erano le idee. Eppure, proprio con le sevizie venne ripagato per aver fatto semplicemente il suo dovere di cittadino, prima ancora che di pastore.
Ma chi era don Cesare Boschin?
Nato in provincia di Padova nel 1914, don Cesare Boschin viene ordinato sacerdote nel luglio del 1942. Dopo i primi incarichi, viene trasferito ad Anzio nel ‘45 per assistere la popolazione colpita dagli eventi bellici; poi a Borgo Le Ferriere nel 1950 per partecipare alla ricostruzione della chiesa di Santa Maria Goretti. In quell’occasione gli viene affidata anche la conduzione della parrocchia della Santissima Annunziata, a Borgo Montello.
Racconta Felice Cipriani, originario di Maenza, giornalista freelance e “scrittore della Memoria” nel suo libro “Quello strano delitto di don Cesare Boschin” (2016, Eta editore).
“Lui che aveva provato l’indigenza e la povertà estrema, capiva bene la miseria e la mancanza di lavoro nelle famiglie. Negli ultimi anni, passava con la sua Fiat 127, di famiglia in famiglia, per la consegna della rivista Famiglia Cristiana (…).
Arrivava e si faceva sentire suonando il clacson e poi scendeva per essere accolto nella casa e, se vi erano anziani o malati, si informava sulle loro condizioni e il più delle volte si prendeva il caffè, che alla fine del “giro” sarebbero stati molti (…).
Gli veniva richiesto e sollecitato un suo intervento in caso di liti famigliari, crisi matrimoniali o tentativi di separazione. Nel giro, gli venivano date dalle famiglie offerte per la chiesa, ma a volte anche salsicce, salami, uova e fiaschi di vino, qualche dolce e pane appena sfornato. (…) Il giorno seguente don Cesare ripartiva con l’auto con parte di questi doni per distribuirli in modo molto discreto alle famiglie bisognose”.
Genuinità, vicinanza, ma anche presenza certa e supporto costante. Così anche Claudio Gatto, uomo molto vicino al parroco durante tutta la sua permanenza al Borgo, racconta don Cesare a Il Caffè.
“Una persona semplice, uno di noi. Vicino alla gente e legato alla terra. Lui stesso di origini venete coltivava un giardino bellissimo, di cui si prendeva cura scrupolosamente”.
Forse anche per questo don Cesare sentiva forte l’ingiustizia nei confronti del borgo e della sua gente.
Terra chiama, camorra risponde
Chiediamo a Gatto perché allora la stessa gente si sia tirata indietro dopo il tragico evento. Il Comitato del borgo si sciolse, infatti, dopo il ritrovamento del corpo di don Cesare Boschin e la prima archiviazione del caso, a soli quattro mesi dall’accaduto.
Avevano forse creduto alle voci sulla presunta frequentazione di ambienti promiscui da parte di don Cesare?
Spiega Claudio:
“Non si allontanarono per questo. In questi luoghi, commistione di dialetti e tradizioni, è sempre mancato e continua a mancare senso di comunità e di appartenenza. Era inevitabile che il distacco avvenisse. La paura però ha fatto da padrona. La camorra qui c’è stata e c’è ancora.
Il legame tra criminalità e istituzioni non è morto. È fitto e regala vantaggi a più di qualcuno. La popolazione non reagisce. Latina non fa comunità, ma fa presto a escluderti, se alzi troppo la testa. E mi dispiace, ma la chiesa locale non è esente dal discorso, visto il pressoché nullo sostegno manifestato negli anni nei confronti di questa vicenda, contro ogni aspettativa”.
Sull’accusa di presunta condotta dissoluta del parroco, aggiunge Felice Cipriani:
“Don Cesare in quarant’anni ha visto migliaia di giovani frequentare la parrocchia e l’oratorio. In alcuni casi si tratta di tre generazioni. Quelli che sono stati suoi amici lo hanno frequentato da ragazzi e successivamente i figli di questi hanno continuato a frequentarlo finché è vissuto. In tanti anni non si è mai sentito uno “spiffero” malizioso, un accenno a una scorrettezza o a un gesto inopportuno”.
Quella pista troppo chiara, mai seguita
Il caso di don Boschin venne liquidato in breve tempo. Il movente: una rapina finita male. Ma, al momento del ritrovamento, nella stanza del parroco la sola cosa mancante era apparentemente quella di minor pregio: la sua agenda.
Don Boschin, infatti, aveva ancora l’orologio al polso; il portafogli con 700mila lire nella tonaca e nell’armadio una scatola con dentro altri 7 milioni di lire.
È indubbio che il parroco si fosse accorto di qualcosa. Sull’agenda forse annotava le targhe dei camion che vedeva passare dalla finestra della canonica, diretti alla discarica. Un via vai notturno continuo su cui il tempo farà chiarezza negli anni.
Già nel ’96 il pentito Carmine Schiavone riconobbe il marchio della camorra sui territori pontini. Uscì il nome di Antonio Salzillo, nipote di Antonio Bardellino, fondatore del clan dei casalesi. Era proprio Salzillo a gestire lo smaltimento illegale di rifiuti speciali per cui si arrivavano a prendere oltre cinquecentomila lire a bidone.
Dossier Enea e Arpa Lazio registrarono negli anni grandi ammassi metallici nel sottosuolo della discarica di Borgo Montello. Si ipotizzò addirittura fossero bidoni di sostanze tossiche che Europa e Italia si rimpallavano in quegli anni, stipati nella stiva della nave Zanoobia, contenente rifiuti speciali provenienti da più di cento aziende chimiche europee. Diversi operai impiegati in passato nella discarica hanno successivamente confermato il traffico illecito di rifiuti nocivi.
Eppure, l’ipotesi della criminalità organizzata per l’omicidio del parroco di Borgo Montello non fu mai presa in considerazione.
Il male venuto per nuocere
Racconta ancora Claudio Gatto:
“In un primo momento don Cesare non si tirò indietro davanti alla richiesta di appoggiare l’iniziativa della discarica comunale. Quando si rese conto del giro di droga e rifiuti illeciti che stava prendendo piede, di quanto questo avrebbe infangato l’immagine del Borgo e dei suoi abitanti, di quanti giovani stesse coinvolgendo la vicenda, non stentò a prendere posizione.
Si rivolse dapprima alle autorità locali. Inascoltato, attinse a conoscenze personali, della portata di Giulio Andreotti e Vittorio Sbardella. Questo fu, a mio parere, ciò che determinò il tracollo della faccenda. Capirono che non si sarebbe fermato. Iniziarono così telefonate minatorie e visite sospette in canonica. Minacce di ritorsione ai parrocchiani. Pochi giorni prima dell’omicidio, don Cesare si mostrava preoccupato, bisognoso adesso lui di vicinanza. Diceva che la tonaca era una corazza impenetrabile”.
Anche Felice Cipriani, autore di “Quello strano delitto di don Cesare” lo ricorda nel suo libro:
“Povero Don Cesare che quando si trovava in Piemonte, la sera si lavava la tonaca e la faceva asciugare per poterla rimettere il giorno seguente”.
E quando chiediamo a Claudio se, secondo lui, don Cesare conoscesse i suoi assassini risponde così:
“Uno sicuramente, gli ha aperto la porta in una di quelle visite sempre più frequenti”.
Libera prende posizione, ma le prove sono andate distrutte
Nel 2009 don Luigi Ciotti, fondatore di Libera e icona della lotta contro le mafie, in un convegno a Roma in cui era presente l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha richiesto la riapertura del caso, ottenuta nel 2016 anche grazie all’avvocato della famiglia Boschin, Stefano Maccioni.
Ma si scopre che nel 2001 con un’ordinanza del tribunale di Latina i reperti sono stati distrutti, rendendo impossibile il test del DNA e quindi la prosecuzione delle indagini.
Per chi va e per chi resta, l’importanza di fare memoria
“Perché, dopo tutti questi anni, racconta ancora don Cesare con la stessa passione? “, domandiamo a Claudio Gatto.
Risponde commosso:
“Ho anzitutto un debito da cristiano, da fratello di fede. Umanamente, penso che il suo sacrificio sia stato anche per me, dal momento che intimidazioni ne ricevetti anche io. E, quindi, mi sento di doverglielo”.
A Felice Cipriani chiediamo: “Cosa insegna alle nuove generazioni una vicenda come quella di don Boschin?”.
“Di impegnarsi per la verità, perché la verità è democrazia. Ogni delitto rimasto impunito è un fallimento dello Stato. Quello di don Cesare è rimasto impunito per responsabilità dello Stato e della Chiesa che non hanno indagato a dovere. Non è stata fatta neppure un’autopsia, ma una ricognizione del corpo nella camera mortuaria del cimitero”.
Cosa resta della discarica oggi
Il sacrificio di una vittima di mafia è già di per sé un gesto nobile e meritevole di riconoscimento. Non solo quello di don Boschin non ne ha avuto a sufficienza, ma neppure ha scalfito il clima di speculazione selvaggia, fatto di alleanze e interessi nei confronti della discarica di Borgo Montello.
“La gallina dalle uova d’oro” la chiama Carla Piovesan, residente in via Monfalcone, a pochi metri dalla discarica e che da anni combatte per la giustizia e la difesa del bene comune.
Racconta Carla:
“Montello è un caso di ecomafia che non vuole essere riconosciuto. La discarica è chiusa, ma la bonifica è ormai un’ipotesi remota. Anzi, sono in procinto di aprire nuovi impianti. Aperto è pure da anni un processo per inquinamento delle falde.
C’è tanta omertà, le persone non si mobilitano più come un tempo, forse anche perché sfiduciate. A distanze ridotte dalla discarica abitano solo poche famiglie, quelle che hanno patito di più. Anni duri, mi sorprende che siamo vivi. Quando cominci ad accorgerti che in ogni famiglia limitrofa di casa alla discarica ci sono due e più morti di tumore, altri malati, capisci che non si tratta di destino né di coincidenze.
La mia speranza non è mai morta, ma ad oggi mi sento di dire che è una battaglia persa.
In passato c’è stato un riconoscimento da parte delle precedenti amministrazioni del danno subito, ma non abbiamo mai avuto giustizia né risarcimento.
Da ottobre attendiamo ancora un incontro con l’amministrazione comunale attuale, con il sindaco in persona.
Io ho contato 12mila giorni della mia vita così: aria irrespirabile, chiusi in casa, bambini da tenere al sicuro. Ogni quintale l’ho pesato con occhi, naso e cuore. Là sotto sono nascosti tutti i nostri sogni, ciò che volevamo fare di questa terra.
Al di là di normative, leggi e promesse, abito a 150m da quell’ecomostro.
Non è possibile dimenticare. Sono quattordici anni che appendo striscioni ai cancelli della mia casa, ma non ho più frasi da scrivere. Montello è stata considerata la gallina dalle uova d’oro per anni, ma ha rovinato la vita a tanti che hanno pagato per tutti. Chi ha col silenzio, chi addirittura con la vita.
Con la promessa di dare lavoro ai residenti, la situazione ha degenerato in difesa apparente di un bene comune che di comune non ha mai avuto nulla.
Ho consumato le valigie dentro gli ospedali. Questa non è vita”.
Un parere tecnico
Il geometra Dott. Luigi Libralato, consulente dei cittadini per i fatti di Borgo Montello si esprime con Il Caffè sui fatti riguardanti l’ecomostro:
Ho iniziato ad occuparmi “sul posto” di Borgo Montello dal 2012. Sono diventato consulente di parte in tribunale e nel processo per inquinamento delle falde, partecipando a decine di iniziative.
Il documento n. 32 della commissione bicamerale contro le ecomafie del 20/12/2017 evidenzia la situazione nella discarica di Borgo Montello in riferimento allo smaltimento illecito di rifiuti. Non solo sono stati ripercorsi i fatti relativi alle ecomafie, ma anche gli errori amministrativi, di controllo, verifica e prevenzione da parte di chi avrebbe dovuto fare il suo dovere.
Partendo dalla relazione di CTU del Dottor Tomaso Munari sono stati evidenziati i dati preoccupanti sull’inquinamento e sul pericolo per la salute umana, l’ISPRA ha indicato come bisognava procedere per gli esami e per prevenire ulteriori danni. Le successive analisi dell’Arpa Lazio hanno dimostrato la mancata attuazione del contenimento della bonifica.
Il Comune di Latina non ha nemmeno dato seguito alla decisione unanime del consiglio comunale del 2012 per il risarcimento dei danni per coloro che abitano dall’altra parte della strada rispetto alla discarica e che hanno subito un importantissimo danno biologico ed esistenziale, oltre che economico.
La Regione Lazio non ha dato seguito a quanto stabilito nelle AIA di approvazione dei volumi dovendo procedere con la gestione post mortem delle discariche. Per questo motivo i cittadini si sono dovuti rivolgere alla comunità europea e costituirsi parte civile nel processo per inquinamento”
Una vicenda piena di mistero quella di don Cesare Boschin. Una storia rimasta inconclusa, in cui il bene riesce comunque a farsi spazio. Una testimonianza discreta che fa più rumore di proclami e promesse.
La bellezza e la soddisfazione che deriva dal fare semplicemente il proprio dovere perché il bene in fondo si conosce sempre, non è difficile capire da che parte è giusto stare. Bisogna solo assumersene la responsabilità, se si sceglie di ascoltare la propria coscienza.
Don Cesare ha fatto parlare la sua per quello in cui credeva, per per la sua comunità e per il domani. Perché, se muore la verità, muoiono con lei la libertà e il futuro. E davanti all’ingiustizia non si ha il diritto di rimanere sordi, ignavi, stanchi.
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