Lo ha ribadito ancora una volta nei giorni scorsi l’Amministratore Delegato dell’ENEL Fulvio Conti in una trasmissione televisiva: il nucleare in Italia riparte dai vecchi siti e, vista la scelta dei reattori EPR francesi, questi verranno realizzati in zone non sismiche e dove c’è abbondanza di acqua. Sembra l’identikit di Latina. E siccome l’Unione Europea ha deciso che ci deve essere un unico mercato a livello comunitario, giocoforza siamo inseriti negli enormi giochi di potere in corso a livello europeo.
Dopo la guerra fredda, siamo di nuovo ai due blocchi, non più tra nazioni, ma tra lobby atomiche: da un lato AREVA con EdF (Électricité de France) ed ENEL – che da poco hanno comprato rispettivamente l’inglese British Energy e la spagnola Endesa -, contro l’asse russo – germanico formato da Rosatom e le tedesche E.ON e Siemens. Tutte queste aziende hanno deciso di puntare decisamente sul ritorno all’energia nucleare, nonostante tutte le incertezze economiche, ambientali e sociali che contraddistinguono questa tecnologia: come mai? Quale può essere la ragione vera per questa scelta?
Una risposta può venire da alcuni reattori nucleari sperimentali che sono stati messi a punto alcuni anni fa negli Stati Uniti (anche se non risultano ancora ricadute industriali) e riguarda la possibilità di produrre, con le centrali atomiche, oltre all’elettricità, anche quella che da tutti è considerata la fonte di energia “pulita” per eccellenza (anche se tecnicamente è solo un “vettore”): l’idrogeno. Tutte le centrali nucleari del mondo non possono essere “accese” o “spente” come facciamo normalmente con la nostra macchina, ma debbono restare in funzione anche quando non c’è richiesta di energia. Soprattutto durante la notte, quindi, producono una enorme quantità di energia che deve essere letteralmente “svenduta”. Dall’altra parte, la produzione di idrogeno richiede una certa quantità di energia. Ad esempio per produrre idrogeno scindendo le molecole dell’acqua (formata da due atomi di idrogeno e uno di ossigeno), attraverso la cosiddetta elettrolisi, occorrono circa 33 chilowattora per la produzione di un chilogrammo di idrogeno (considerando una tensione di 1,23 Volt). L’industria americana General Atomics ha quindi pensato di “prendere due piccioni con una fava” sviluppando dei reattori che potessero produrre contemporaneamente, ma anche alternativamente, elettricità e idrogeno con la tecnica dell’elettrolisi ad alte temperature.
Questi reattori prototipo funzionano tra gli 850 e i 1.000 gradi, dando una resa energetica relativamente alta (circa il 50%), ma proprio la resistenza dei materiali a tali temperature sembrano l’attuale limite tecnologico. L’azienda americana ha comunque calcolato che potrebbe produrre idrogeno in questo modo al costo di 1,5 euro per chilo. Se si considera che un chilo di idrogeno equivale a 3,8 litri di benzina, si comprende facilmente quali enormi vantaggi economici si otterrebbero da questa tecnologia. E poi basta a dire che importiamo energia nucleare dalla Francia per poi dire che tanto vale produrla direttamente da noi. In realtà acquistiamo energia dai francesi, soprattutto la notte, perché sono costretti a sbarazzarsene. Ma i telegiornali perché non dicono che la Francia a sua volta importa energia dalla Germania e dall’Italia? Con la loro corrente alimentiamo le pompe per ricaricare d’acqua i bacini idroelettrici per generare kilowatt puliti che loro ricomprano per raggiungere il tetto di energia da rinnovabili imposto dall’Europa. E che serve ai produttori per prendere sussidi pubblici.
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