A distanza di due anni e mezzo dagli arresti compiuti dai carabinieri del Ros nell’inchiesta denominata “Equilibri”, relativa agli affari del clan Fragalà sul litorale romano, il Tribunale di Velletri ha inflitto agli imputati condanne per oltre un secolo e mezzo di carcere, andando in alcuni casi oltre le richieste fatte dal pubblico ministero, e ha soprattutto avallato l’ipotesi che avessero costituito un’associazione per delinquere di stampo mafioso. Il collegio presieduto dal giudice Laura Matilde Campoli, restando ai principali imputati, ha condannato il presunto boss Alessandro Fragalà a 26 anni e 11 mesi di reclusione, la figlia Astrid a due anni e mezzo, Ignazio Fragalà a 13 anni e 3 mesi, Salvatore Fragalà a 16 anni, Simone Fragalà a 4 anni e mezzo, Mariangela Fragalà a 14 anni e 11 mesi, Santo D’Agata a 24 anni e 7 mesi e Francesco D’agati a due anni e mezzo. E in totale le condanne sono state 18.
Per la Dda di Roma, il clan Fragalà avrebbe seminato il terrore sul litorale, tra la capitale, Ardea e Pomezia, mettendo in piedi un’organizzazione mafiosa, gestendo il narcotraffico e le estorsioni ai danni di commercianti e imprenditori. Un gruppo che avrebbe cercato anche di piegare ai propri interessi l’amministrazione comunale pometina, che avrebbe messo a punto persino un rituale di affiliazione basato sul giuramento con il sangue, un fazzoletto di seta annodato e l’immagine di San Michele Arcangelo, e che avrebbe mantenuto stretti rapporti con la camorra casalese, la mafia siciliana dei catanesi Santapaola e Cappello, e i Fasciani di Ostia. Tutto gestito da un triumvirato composto da Alessandro Fragalà, il nipote Salvatore e Santo D’Agata.
Il gruppo criminale si sarebbe trasformato in clan mafioso nel 2009. Una convinzione maturata negli inquirenti alla luce delle indagini svolte dai carabinieri e delle rivelazioni di Sante Fragalà, un esponente dell’organizzazione, arrestato per la cosiddetta mattanza di Cecchina del 29 maggio 2011, un duplice omicidio e un duplice tentato omicidio compiuto ad Albano Laziale nell’ambito di uno scontro legato al mercato della droga, e che ha deciso di collaborare con la giustizia. Fu infatti in quella data che Alessandro Fragalà, lo zio di Sante, in quel momento detenuto, ordinò di mettere su un clan e prendere il controllo del litorale. Da allora sarebbe stato un susseguirsi di estorsioni, traffici di sostanze stupefacenti, rapine, incendi e danneggiamenti, facendo largo uso di armi ed esplosivi.
A sostenere che i Fragalà erano mafia era stato inoltre già il giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Roma, Claudio Carini, condannando a un totale di oltre 50 anni di carcere sei imputati che avevano scelto di farsi giudicare con rito abbreviato. Per il giudice Carini, “tutti i delitti sono stati commessi facendo valere la forza notoria nell’ambiente circostante e nel territorio di riferimento del vincolo associativo mafioso sui poggia la famiglia Fragalà, strumento di intimidazione usato per impaurire le persone offese, scoraggiandole dall’intraprendere qualunque iniziativa oppositiva e indurle a rassegnarsi all’acquiescenza, ma anche per intimidire i possibili rivali i quali sanno di doversi preparare se vogliono resistere ad un duro scontro e quasi sempre accettano con favore o addirittura auspicano l’intermediazione di personaggi influenti che garantiscano una pacifica soluzione dei conflitti”.