Non si capisce la coriacea ostinazione dell’avvocato a volersi sedere su quella poltrona, ma di fatto da quando i garanti nazionali del partito hanno dato ragione ad Alessandro Di Tommaso, annullando il blitz con il quale i renziani si votarono Mansutti presidente (la guerra di memorie ha dato ragione al giovane politico latinense sconfessando quelle del legale pontino), il Pd provinciale è bloccato, fermo al palo. Muto e silenzioso su tutto. Una strategia del lungo sonno che ha già dimostrato essere perdente. Ma pare essere questa la vocazione del maggiore partito di opposizione in provincia: guai a governare, meglio gestire quel piccolo spazio di potere interno che metterci la faccia e uscire fuori. Lapenna non riesce a comporre la sua segreteria, ha indicato solo Clemente Pernarella alle politiche culturali e Floriana Giancotti (non proprio una new entry nella politica provinciale). Il resto si è riservato di nominarlo solo dopo l’elezione del presidente, che non si riesce a scegliere.
Ma perché questa ostinazione cieca su Mansutti? E perché Claudio Moscardelli, il vero artefice dell’operazione “Mansutti o morte”, che tanto decanta sui social network le azioni di Matteo Renzi, poi nella realtà non imita il suo idolo e lascia che a fare il presidente sia lo sfidante alle primarie? Presidente nazionale è diventato infatti Gianni Cuperlo, il competitor di Renzi. Ma a Latina questo fair play non esiste. È una questione di stile, di differenza tra fame di potere e voglia di buona politica. Tra l’altro Di Tommaso, giovane politico di Terracina, starebbe meglio accanto a Lapenna rispetto al cinerino Mansutti. Ma lo stile non si vende a chili al mercato, e quello di certi ex democristiani si è perso nei corridoi del potere. Piccolo, ma certo.