Dalle prime ore di questa mattina, la Polizia di Stato e la Guardia di Finanza stanno eseguendo a Roma e provincia un provvedimento di sequestro, ai sensi della normativa antimafia, emesso su proposta formulata congiuntamente dal Procuratore della Repubblica e dal Questore di Roma, concernente beni, assetti societari e rapporti finanziari, per un valore complessivo di 1,8 milioni di euro.
Si tratta di beni riconducibili a un’organizzazione criminale a base familiare, formata da soggetti di etnia rom, stabilmente dedita a reati contro la fede pubblica e il patrimonio, anche attraverso frode, quali furti in abitazioni, perpetrati perlopiù dalle donne del gruppo, in diverse località del territorio nazionale, truffe ai danni di anziani anche tramite piattaforme di annunci online, riciclaggio di veicoli ed altre attività illecite.
L’operazione, chiamata “Gialla e Nera”, rientra nel quadro di una strategia di contrasto all’accumulazione dei patrimoni illeciti da parte delle consorterie criminali.
[Link al video dell’operazione “Gialla e Nera” qui]
I beni sequestrati alle famiglie rom nell’operazione “Gialla e Nera”
Il provvedimento di sequestro, eseguito dagli uomini della Divisione Anticrimine della Questura di Roma e del Nucleo di Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza di Roma, riguarda la totalità delle quote sociali di 2 compagini e di un’impresa individuale con relativi complessi aziendali operanti in Roma nel commercio di veicoli e bar, nonché di 4 immobili siti in Tivoli.
Tra gli immobili risulta esserci una villa di notevoli dimensioni, già adibita a camera ardente per la salma di un giovane deceduto del clan.
Sequestrate anche polizze di pegno, disponibilità finanziarie e 6 autovetture di elevato valore economico, quali una Porsche Cayenne, una Mercedes AMG A45 S ed una Lamborghini Gallardo.
Della Lamborghini risulta attualmente titolare un esponente di un clan sinti collegato, tratto in arresto nell’ambito di un recente omicidio che è costato la vita ad un giovane minorenne.
Il valore complessivo dei beni in sequestro ammonta a circa 1,8 milioni di euro.
La cittadinanza italiana acquisita in maniera fraudolenta
Due membri del clan, pur essendo certamente fratelli, riportano cognomi differenti. Il loro padre infatti obbligava italiani a riconoscere la paternità dei figli dei componenti della banda, nati dall’unione di persone dell’ex Jugoslavia, affinché i bambini risultassero cittadini italiani, permettendo alle madri di richiedere i permessi di soggiorno per i ricongiungimenti familiari.
I soggetti, rimasti illegalmente nel territorio italiano, grazie a documenti che ne attestavano falsamente la cittadinanza, si sono stabiliti prima nel basso Lazio e successivamente si sono insediati nella Capitale suddividendosi gli affari illeciti con altro clan sinti collegato.
Le attività criminose del clan
I clan si erano divisi le attività criminali.
Il clan sinti si dedicava prevalentemente al traffico di sostanze stupefacenti. Le famiglie rom destinatarie degli odierni provvedimenti erano dedite a furti e rapine in tutta Italia ed alla fabbricazione di documenti falsi per circolare liberamente in Europa, con la possibilità di godere dei beni illeciti attraverso le fittizie intestazioni.
Altra attività criminale, di rilievo transnazionale, appannaggio del clan, è il riciclaggio e la ricettazione di automobili di grossa cilindrata, provenienti dall’Italia e rivendute in vari Paesi europei e in Arabia.
Riguardo ai furti, alle truffe ed alle rapine in appartamenti, le indagini hanno evidenziato come l’organizzazione effettuasse vere e proprie trasferte criminali – con noleggio di autovetture mediante l’esibizione di documenti falsi – soprattutto verso piccoli centri abitati della Calabria, della Basilicata e della Sicilia.
Durante queste “trasferte” le donne del gruppo si introducevano indebitamente nelle abitazioni di persone anziane, approfittando della momentanea distrazione delle stesse, o utilizzando scuse e stratagemmi vari.
In genere fingevano che una di esse fosse in stato di gravidanza ed aveva bisogno di utilizzare il bagno. A quel punto, mentre la vittima veniva distratta, altri complici si introducevano all’interno dell’appartamento per sottrarre oggetti preziosi, denaro, carte bancomat, carte di prelievo dei libretti postali, con i relativi Pin.
Dopo il furto si dirigevano verso altri centri abitati ove effettuavano prelievi di contante dagli sportelli Bancomat, utilizzando le Carte indebitamente sottratte alle persone offese.
Le truffe informatiche
Il clan era attivo anche nell’ambito delle truffe informatiche.
I criminali si fingevano acquirenti rispondendo ad annunci pubblicati sulla piattaforma e-commerce subito.it.
Proponevano alle vittime come modalità di pagamento il cosiddetto prelievo S.O.S. (Servizio che in una situazione di emergenza permette ai correntisti di autorizzare soggetti terzi al prelievo di contante presso gli ATM). Convincevano quindi i malcapitati a recarsi presso ATM di alcuni Istituti di credito per ricevere l’accredito della somma pattuita. Una volta inserita la propria carta le vittime venivano istruite telefonicamente a compiere alcune procedure, a seguito delle quali, anziché ricevere denaro, ricaricavano inconsapevolmente le carte Postepay dei malviventi.
Per la realizzazione di tali condotte criminose il gruppo si avvaleva di numerosissimi intestatari fittizi per le utenze telefoniche e per le carte Postepay, nonché di una schiera di giovani soggetti incaricati dei successivi prelievi presso gli sportelli ATM.
I gregari venivano letteralmente “telecomandati” tramite le App di messaggistica Whatsapp o Telegram. Qui ricevevano indicazioni e screenshot delle carte da utilizzare nonché dei pin da associare e delle somme da prelevare.
In linguaggio convenzionale le carte venivano indicate con i nomi “Gialla” e “Nera”, da cui il nome dell’odierna operazione delle Forze dell’Ordine.
La sproporzione tra i redditi dichiarati e lo stile di vita
Dalle indagini condotte dalla Polizia di Stato e dalla Guarda di Finanza, che hanno abbracciato l’arco temporale di oltre un ventennio, è emerso che gli indagati conducevano un elevato tenore di vita, assolutamente incompatibile con l’assenza di redditi dichiarati.
Vi era un’assoluta sproporzione tra la complessiva situazione reddituale “dichiarata” e il patrimonio direttamente o indirettamente loro riconducibile.
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