La sentenza pubblicata dal Tar l’11 dicembre 2017 è piena di “omissis”, nel rispetto dell’identità e dello stato di salute di un ex Caporal maggiore dell’Esercito Italiano, residente ad Aprilia, che dall’8 marzo 2000 al 13 luglio 2000 ha prestato servizio nel contingente italiano inviato in missione internazionale di pace in Kosovo e che si è successivamente ammalato, probabilmente a causa dell’esposizione senza mezzi di protezione in zone bombardate da uranio impoverito.
L’ex soldato aveva trascinato in Tribunale il Ministero della Difesa, Stato Maggiore della Difesa e Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali, biologici, morali ed esistenziali provocati dalla malattia. Sono 317 i militari morti e oltre 3600 i malati di varie forme di cancro dipeso con tutta probabilità dall’uranio impoverito. Ad oggi sono oltre 30 le sentenze a carico del ministero della Difesa, di cui la maggior parte ormai definitive, che danno ragione a militari italiani ammalatisi o familiari di militari deceduti. Sentenze che segnano la storia del cosiddetto caso “Sindrome dei Balcani” scoppiato nel 2001 con l’emergere dei primi casi di militari italiani ammalatisi o deceduti al rientro dalle missioni in Bosnia Erzegovina e Kosovo. A queste non si aggiungerà quella dell’ex Caporal Maggiore.
Il soldato sosteneva che “l’accertata patologia è dovuta all’inquinamento atmosferico, alle contaminazioni tossiche provocate dalla combustione ed ossidazione dei metalli pesanti causate dall’impatto ed esplosione delle munizioni, anche di uranio impoverito, sui bersagli, sulle superfici dure, sulle fabbriche chimiche presenti in loco, sui siti ove permaneva durante il servizio di vigilanza e su quelli che il predetto aveva attraversato durante il servizio di scorta, sui depositi petroliferi e di altri carburanti, nonché per le esalazioni dei gas di scarico degli automezzi bellici e quelle dei solventi chimici per la pulizia delle armi”, in cui il soldato era quotidianamente addetto, “in uno con l’indebolimento fisico dovuto allo stress ed ai numerosi vaccini allo stesso somministrati, infine nella mancanza di ogni protezione individuale per tali zone obiettivamente inquinate”.
Lo Stato, di contro, escludeva “la sussistenza del nesso eziologico tra la patologia riscontrata ed il servizio prestato nell’area balcanica in occasione della missione di pace in Kosovo”.
A febbraio scorso, il tar aveva deciso di “verificare la sussistenza del nesso causale tra la patologia che ha attinto il ricorrente ed il servizio svolto nell’area balcanica”, incaricando l’Università degli Studi di Roma La Sapienza, Dipartimento di Scienze Radiologiche, Oncologiche e Anatomo-Patologiche. L’udienza è stata dunque aggiornata.
Perdere la vita in guerra per una pallottola fa parte dei rischi del mestiere di un militare, ma altro conto è morire contraendo un tumore per l’esposizione a sostanze tossiche ignorandone i possibili effetti che, invece, come sostengono precedenti sentenze, erano noti ai vertici della Difesa.
Eppure, nel caso dell’ex militare di Aprilia, “dal quadro clinico esaminato, in relazione allo stato attuale delle conoscenze mediche, le indicate malattie potevano, con significativa probabilità, insorgere a prescindere dall’impiego del ricorrente in Kossovo. In sintesi, per l’Organo di verificazione, non è stato dimostrata la esistenza di un nesso causale tra servizio e la complessa patologia accusata dal ricorrente”.
Nessun risarcimento, ma anzi il soldato malato è stato condannato a pagare le spese processuali e le perizie scientifiche svolte: un conto di oltre cinquemila euro.