Ogni anno nel Lazio le famiglie spendono dai 14 ai 20 miliardi di euro all’anno per acquistare prodotti alimentari e bevande che per il 40-50% del loro volume finiscono direttamente nella spazzatura.
Nel medesimo anno in Italia (il dato al momento non è stimabile a livello regionale) siamo costretti a spendere tra i 3,3 e i 5 miliardi di euro per smaltimenti di rifiuti con cicli non chiusi (discariche e termoincenerimento), cioè per metterli sotto terra o facendoli respirare sotto forma di aerosol ai residenti intorno agli inceneritori. Tutto ciò al solo fine di ingrassare i soliti noti “padroni della immondizia” e senza che venga realizzata una seria raccolta differenziata prevista per legge; cioè commettendo di fatto una illegalità. Questo avviene nonostante che già all’atto dell’acquisto noi paghiamo il “contributo ambientale” che servirebbe a riciclare il rifiuto.
Ma la cosa più importante sta nel fatto che con i soldi occorrenti per pagare un posto di lavoro in discarica e in un termoinceneritore, se ne possono creare rispettivamente 6 e 15 con la raccolta differenziata “porta a porta”. Posti che salirebbero a 20 in entrambi i casi con la filosofia “zero rifiuti”, cioè facendo in modo che tutta la filiera produttiva già a monte produca imballaggi e confezioni facilmente riciclabili a valle, dopo la loro utilizzazione.
Anche questo aspetto è facilmente realizzabile (ammesso che si voglia farlo) ed è dimostrabile con un esempio. Creare e mantenere un posto di lavoro in un termoinceneritore tipo quello ipotizzato a Roncigliano (nel Comune di Albano, vicinissimo ad Ardea e Pomezia), dati storici alla mano, non costerebbe meno di 500mila euro l’anno e soprattutto non starebbe economicamente in piedi senza i famigerati contributi CIP6 tutt’oggi in vigore. Ma al lavoratore va in tasca ben poco. Il progetto di quell’inceneritore, oltre ad essere al centro del processo penale sullo scandalo rifiuti a Roma e nel Lazio (“Cerronopoli”), è oggetto anche di un processo davanti al Tar per quel mezzo miliardo di euro di CIP6 che ottenne durante la giunta regionale guidata da Marrazzo. “Regalone” confermato dall’amministrazione Polverini, che prorogò l’autorizzazione integrata ambientale al progetto, mai partito finora.
Si tratta degli incentivi che vengono finanziati mediante un sovrapprezzo del 6-7% del costo sostenuto dai produttori di energia elettrica e che viene addebitato direttamente agli utenti finali con la componente A3 delle bollette (i cosiddetti oneri di sistema). Questi incentivi fin dal 1991 dovevano servire a finanziare le energie rinnovabili vere (fotovoltaico, eolico, geotermico, ecc.), ma invece in gran parte sono andati alle fonti “assimilate” alle rinnovabili, tra le quali c’è (solo in Italia rispetto all’intera Europa) con le centrali elettriche a metano (turbogas) anche il termoincenerimento dei rifiuti con recupero di energia. Questo tipo di posti di lavoro hanno la caratteristica di essere ad alta intensità di energia e di capitale e a scarsa intensità del lavoro manuale. Vuol dire che per ammortizzare i costi di realizzazione e di gestione di un termoinceneritore servono tanti soldi e tanta energia, ma poca mano d’opera. Danno dunque lavoro a pochissime persone. Senza contare i costi aggiuntivi dovuti all’inquinamento.
Il metodo di raccolta “porta a porta” invece fa esattamente il contrario; richiede poco capitale e poca energia, ma molta mano d’opera. In tal modo si recupera correttamente tutto il materiale differenziato che può essere così rivenduto ai consorzi obbligatori (imballaggi, olii usati, ecc.) i quali sono finanziati con il nostro “contributo ambientale”.
Senza contare i risparmi per gli utenti: il costo medio nel comprensorio servito dal Consorzio Priula citato nell’articolo della pagina qui accanto (incluse le utenze non domestiche) è di circa 150-250 euro l’anno ad utenza (esclusa IVA e contributi provinciali); meno della media delle bollette che si pagano dalle nostre parti. In conclusione con un inceneritore paghiamo più volte lo stesso servizio (con le bollette, con i CIP6 e con il mancato recupero del contributo ambientale), ottenendone in cambio di essere inquinati e disoccupati. Mentre cambiando metodo, si ottiene esattamente l’effetto contrario. Perché non si fa? Chiediamolo a chi di dovere, magari quando torneremo a votare e quando vengono a tagliare i nastri nelle nostre città.
Nel medesimo anno in Italia (il dato al momento non è stimabile a livello regionale) siamo costretti a spendere tra i 3,3 e i 5 miliardi di euro per smaltimenti di rifiuti con cicli non chiusi (discariche e termoincenerimento), cioè per metterli sotto terra o facendoli respirare sotto forma di aerosol ai residenti intorno agli inceneritori. Tutto ciò al solo fine di ingrassare i soliti noti “padroni della immondizia” e senza che venga realizzata una seria raccolta differenziata prevista per legge; cioè commettendo di fatto una illegalità. Questo avviene nonostante che già all’atto dell’acquisto noi paghiamo il “contributo ambientale” che servirebbe a riciclare il rifiuto.
Ma la cosa più importante sta nel fatto che con i soldi occorrenti per pagare un posto di lavoro in discarica e in un termoinceneritore, se ne possono creare rispettivamente 6 e 15 con la raccolta differenziata “porta a porta”. Posti che salirebbero a 20 in entrambi i casi con la filosofia “zero rifiuti”, cioè facendo in modo che tutta la filiera produttiva già a monte produca imballaggi e confezioni facilmente riciclabili a valle, dopo la loro utilizzazione.
Anche questo aspetto è facilmente realizzabile (ammesso che si voglia farlo) ed è dimostrabile con un esempio. Creare e mantenere un posto di lavoro in un termoinceneritore tipo quello ipotizzato a Roncigliano (nel Comune di Albano, vicinissimo ad Ardea e Pomezia), dati storici alla mano, non costerebbe meno di 500mila euro l’anno e soprattutto non starebbe economicamente in piedi senza i famigerati contributi CIP6 tutt’oggi in vigore. Ma al lavoratore va in tasca ben poco. Il progetto di quell’inceneritore, oltre ad essere al centro del processo penale sullo scandalo rifiuti a Roma e nel Lazio (“Cerronopoli”), è oggetto anche di un processo davanti al Tar per quel mezzo miliardo di euro di CIP6 che ottenne durante la giunta regionale guidata da Marrazzo. “Regalone” confermato dall’amministrazione Polverini, che prorogò l’autorizzazione integrata ambientale al progetto, mai partito finora.
Si tratta degli incentivi che vengono finanziati mediante un sovrapprezzo del 6-7% del costo sostenuto dai produttori di energia elettrica e che viene addebitato direttamente agli utenti finali con la componente A3 delle bollette (i cosiddetti oneri di sistema). Questi incentivi fin dal 1991 dovevano servire a finanziare le energie rinnovabili vere (fotovoltaico, eolico, geotermico, ecc.), ma invece in gran parte sono andati alle fonti “assimilate” alle rinnovabili, tra le quali c’è (solo in Italia rispetto all’intera Europa) con le centrali elettriche a metano (turbogas) anche il termoincenerimento dei rifiuti con recupero di energia. Questo tipo di posti di lavoro hanno la caratteristica di essere ad alta intensità di energia e di capitale e a scarsa intensità del lavoro manuale. Vuol dire che per ammortizzare i costi di realizzazione e di gestione di un termoinceneritore servono tanti soldi e tanta energia, ma poca mano d’opera. Danno dunque lavoro a pochissime persone. Senza contare i costi aggiuntivi dovuti all’inquinamento.
Il metodo di raccolta “porta a porta” invece fa esattamente il contrario; richiede poco capitale e poca energia, ma molta mano d’opera. In tal modo si recupera correttamente tutto il materiale differenziato che può essere così rivenduto ai consorzi obbligatori (imballaggi, olii usati, ecc.) i quali sono finanziati con il nostro “contributo ambientale”.
Senza contare i risparmi per gli utenti: il costo medio nel comprensorio servito dal Consorzio Priula citato nell’articolo della pagina qui accanto (incluse le utenze non domestiche) è di circa 150-250 euro l’anno ad utenza (esclusa IVA e contributi provinciali); meno della media delle bollette che si pagano dalle nostre parti. In conclusione con un inceneritore paghiamo più volte lo stesso servizio (con le bollette, con i CIP6 e con il mancato recupero del contributo ambientale), ottenendone in cambio di essere inquinati e disoccupati. Mentre cambiando metodo, si ottiene esattamente l’effetto contrario. Perché non si fa? Chiediamolo a chi di dovere, magari quando torneremo a votare e quando vengono a tagliare i nastri nelle nostre città.
30/01/2015